Anche se ultimamente aggiorno poco il blog, volevo rilanciare qui un mio articolo sulle gelaterie di Rimini uscito questa settimana sul Ponte
RIMINI: I “negozi” storici che tengono il passo, le piacevoli novità. Il boom del 2010: due nuove aperture a pochi passi in centro storico. Sapori inediti, tempi di attesa e costi a volte alle stelle.
Una volta c’era il gelato. Punto. Senza tanti fronzoli. I gusti erano quelli classici: cioccolato, crema gianduja, stracciatella e la frutta. Rimini, patria della vacanza estiva, aveva fatto del gelato la sua bandiera. Le gelaterie storiche al mare, come il Nuovo Fiore, o quelle del centro, La Romana e il Pellicano in testa, sono state vere istituzioni per tutti gli anni ’80 e i ’90. Poi le cose sono cambiate. Il Nuovo Fiore è andato un po’ in declino. Ancora oggi, in viale Vespucci, mantiene un’atmosfera molto anni ’80. Diverso il discorso per la Romana, gelateria riminese dal 1947, che ha passato periodi un po’ difficili, come la devastante infatuazione per i “gusti caldi”, che altro non erano che delle mousse burrose e davvero indigeste, e infine la ripresa. Di tutte, il Pellicano è quella che ha mantenuto più a lungo la sua linea: anche se oggi ci sono dei gelati che vantano qualcosa in più, non ha mai avuto scadimenti. Ultimamente il panorama è radicalmente cambiato. In soli due anni sono sorte a Rimini ben tre nuove gelaterie, e da quasi un decennio spopola la gelateria dei due gemelli Ceccarelli, Fabrizio e Francesco (ormai popolarissimi in tv), il Biodelirio. Facciamo un passo alla volta, o rischiamo di perderci tra le creme. Ogni negozio mostra, con orgoglio, pannelli che sottolineano la provenienza dei prodotti, la qualità delle materie prime, la lavorazione dei gusti. Il latte è di alta qualità, o di produttori locali. La vaniglia è del Madagascar, la nocciola è calibrata, piemontese o siciliana, così come i pistacchi. Il cacao viene dal Sud-America e per mantecare il gelato non si usano più i macchinari a ventola, ma quelli con pale verticali. Al di là della moda gastronomica che fa di ogni cibo una questione da gourmet, sono innovazioni che fanno bene al gelato. La concorrenza sprona chi si era un po’ assopito. E la qualità dei gelati è notevolmente aumentata. Lampante l’esempio della Romana. Da ormai un anno la gelateria ha fatto un completo restyling non solo del negozio ma anche dei gusti. Oggi, tra crema di nocciola, mascarpone, passito di Pantelleria, crema antica e altri ottimi gusti ha ritrovato un gelato davvero buono. Solo latte di alta qualità e commesse un po’ più carine e gentili degli ultimi anni. Altro merito è il prezzo. La Romana è una delle poche gelaterie che ha mantenuto il cono e la coppa piccoli da 1,80 euro, quando ovunque, ormai, il minimo è 2 euro, se non 2 euro e 50. Il Pellicano continua con una buona qualità, e ultimamente prova anche a cercare gusti un po’ più particolari, tipo il nocciolone - una sorta di bacio arricchito, il cremino al pistacchio, il raffaello, yogurt ai frutti di bosco e altri. Entrambe le gelaterie, poi, hanno aperto numerose filiali a Rimini (Il Pellicano) e fuori (La Romana è salita sul Titano e in altri comuni). Molto apprezzata e ormai “storica” è la Piazzetta, la gelateria in Piazza Mazzini. Ottimo gelato e grandi gusti tra cui il mitico pinolo allo spiedo: pinoli tostati, caramello e crema al mascarpone. La prima grande rivoluzione, però, è quella legata alla gelateria dei gemelli. Ora il locale si trova nella nuova sede di via Marecchiese, un po’ più attenta allo stile e alla pubblicità, mentre prima era nascosta dietro al grattacielo di Rimini, in una delle zone più squallide della città. Nonostante questo, ogni sera c’erano lunghe file e attese di mezz’ora per un gelato. Il successo era dovuto anche alla teatralità dei due gemelli Ceccarelli (che infatti, ora, sono sempre in tv con Chiambretti), ma anche il gelato faceva la sua parte. È stato il primo gelato biologico della città. Niente zucchero, ma miele e succo d’uva. I gusti erano tutti classici, ma avevano una sapore notevolmente migliore degli altri. Mangiare il gelato alla noce dai gemelli era come mangiare delle noci. Non si notava la differenza. Da quando però i due protagonisti hanno preso la via del piccolo schermo le cose si sono fatte un po’ altalenanti. Rimane sempre un ottimo gelato, senza riserve, ma qualcosa s’è perso.
I coni tremano Un secondo scossone al mondo dei gelati riminesi è arrivato nel 2008 dalla gelateria il Castello, di fronte alla Rocca in viale Valturio. Fino all’anno prima, dove ora c’è la gelateria si trovava un negozio di computer, poi Marco, il proprietario, ha deciso di cambiare vita, ha fatto dei corsi da gelatiere ed ha inaugurato un nuovo corso. Quando si dice l’idea giusta. Dal momento dell’apertura sino alla chiusura invernale fuori dal negozio le file sembrano infinite e per avere un gelato bisogna armarsi di tanta pazienza. Gianduja, mascarpone, yogurt, pistacchio, cioccolato fondente, ricotta e fichi: i gusti sono cremosissimi, vellutati, mai troppo dolci - come capita a tanti gelati - e davvero di alta qualità. La panna montata, da chiedere a parte, è sublime e spumosa come poche. Peccato solo l’ubicazione di fronte alla rotonda che non rende facile gustarsi il gelato sul posto a meno di voler aggiungere il gusto CO2. Nei primi mesi del 2010, hanno aperto contemporaneamente due nuove gelaterie in piazza Cavour. La prima è la gelateria Scintilla, riconoscibile per il bancone enorme, all’angolo tra la piazza e Corso d’Augusto. Arredamento scintillante e una pletora di gusti tra cui quelli iperproteici per sportivi, i pasticcini senza glutine e altre trovate che però non convincono. I gusti sono buoni e molto cremosi, alcuni davvero interessanti, come il mascarpone ricco di pezzi di cioccolata e nocciola, ma sono un po’ troppo dolciastri, e “industriali”. La Scintilla è un franchising nazionale che produce semilavorati e li manda alle filiali che poi li montano con latte e zucchero. A pochi passi, la gelateria Grom, anch’essa un franchising (di Torino), propone una filosofia opposta, simile a quella del Castello. Prodotti di qualità, presidi slow-food e lavorazione artigianale. I gusti hanno un sapore molto spiccato, deciso, di classe. La consistenza è molto cremosa. Tra le novità proposte: la crema di grom, arricchita con le paste di meliga, un biscotto frollino tipico della zona del cuneese, in Piemonte, il cioccolato extranoir, il torroncino con granella di torrone d’Asti. Non mancano i difetti, soprattutto per chi ha fretta. Per ogni gelato si deve rispondere ad un questionario: cono o coppa, cono fragrante o di cialda, aggiunta di pasta di meliga o di panna montata (entrambe costo a parte). Anche il confezionamento del gelato avviene con un rituale interessante ma lungo. Ogni gusto viene preso con la paletta, sbattuto e lasciato cadere sul gelato. Tutto bello, ma con tre persone si aspetta una vita. L’attesa però viene premiata con un gran gelato. Questa breve panoramica non vuole essere certo esaustiva. Esistono a Rimini molte altre gelaterie, spesso piccole conduzioni familiari, con poche pretese, e buon gelato. Vale la pena perdere un po’ di tempo a cercarle e provarle. Alla fine si scoprirà che ognuno ha il proprio gusto prediletto. L’alternanza fa sempre bene. Nonostante gli aumenti, infatti, il gelato resta un alimento economico, e con una coppa media si sostituisce ottimamente un pranzo, specie d’estate.
Nelle storie dei monasteri medievali c'è una parte che ho sempre trovato estremamente affascinante, ed è la descrizione dei grandi pranzi delle abbazie. Si leggeva di lunghe tavolate e di file ininterrotte di piatti che conquistavano solo a leggerne il nome. Pietanze speziate, pasticci di ogni tipo e carni e paste che si susseguivano l'una alle altre senza sosta. Dalla storia alla realtà, da Tassi (tel. 0532 893030) io provo vivissima questa sensazione. Da quando lo conosco - durante il viaggio in barca sul Po con Michele Marziani nel 2007 - sono già tornato 4 volte, nonostante i 170 kilometri che dividono Rimini da Bondeno. Ma Tassi li vale tutti, pure nel caso non amiate il paesaggio ferrarese basso, malinconico, piatto a perdita d'occhio misto di foschia e grigio. Nelle guide si parla genericamente di scrigno dei sapori ferraresi, o di garante delle tradizioni, o ultimo baluardo della vera salama da sugo. Tutto vero. Ma non basta dirlo così. E neanche la targa fuori dal ristorante, messa dal comune in onore del padre di Roberto Tassi, l'attuale proprietario, fa capire fino in fondo perché.
Per me che vengo dalla Romagna e dalle Marche, l sapori di questi luoghi hanno qualcosa di inafferrabile. Dalle nostre parti i piatti sono schietti. Il salato è salato, punto. I cappelletti sono in brodo salato, la grigliata è salata, e alla fine solo il dolce è dolce. Semplice. Qui no. La cucina è complessa ed elaborata, ricca, sfumata. La cucina ferrarese è quella rinascimentale, delle corti estense. Lo è ancora oggi. Altrimenti come si potrebbe concepire un piatto come il pasticcio di maccheroni - che a parole l'apt di Ferrara mi aveva fatto odiare - in cui i maccheroni al tartufo e funghi vengono serviti in una pasta frolla zuccherata?! Sì zuccherata! E' importante dirlo, perché di solito il dolce-salato viene un po' mascherato. Sì, magari c'è qualcosa di salato avvolto in una crosta dolcina, ma non troppo. Si tende a fare in modo che il le cose non siano troppo lontane tra loro. Qui no. La parte dolce è dolcissima. E' la stessa frolla dei dolci! E questo è un piatto rinascimentale, quando le corti italiane amavano dare vita a incontri di sapori assolutamente inconsueti. A mangiarlo ci si sente quasi seduti ad una corte rinascimentale. Magari con un cappellone a strisce bianche e rosse e una serie di paggetti e consiglieri ai miei ordini che portano enormi vassoi di cacciagione e contorni.
Ma torniamo ai nostri tempi. Il servizio è molto attento, veloce, competente. Complice anche il fatto che non c'è il menù, ma sempre gli stessi piatti: quelli della cucina ferrarese, se fosse sfuggito. Il servizio è a carrelli. Ci si siede, e cominciano ad arrivare camerieri con carrelli: si comincia con degli ottimi passatelli in brodo col tartufo (altra cosa che, se la presentate a Rimini e dintorni, vi sparano a vista. In zona i passatelli in brodo non hanno aromi aggiunti!), poi i tortelli di zucca con burro e salvia (forse l'unica cosa non proprio "tipica" dato che lo stesso Tassi, durante un'intervista, ci disse che i tortelli di zucca ferraresi si condiscono col ragù. La versione burro e salvia è più mantovana e parmense), il pasticcio di maccheroni, una lasagnetta, e, per finire coi primi, le tagliatelle con ragù di salsiccia e fagioli.
Poi si arriva al momento topico: la salama da sugo. Servita come da rituale: aperta e scucchiaiata sopra un piatto di purè fumante, accompagnata da una fetta di lingua di cinghiale affumicata. Quasi superfluo dire che è ottima. E' saporitissima, sapida, speziata. Ci si perde prima nei profumi e poi nei sapori, appena stemperati dal purè. Se arrivati a questo punto (con tutti i bis del caso), riuscite ad andare avanti, c'è il carrello dei bolliti, che trabocca di cotechini, zamponi, prosciutti, lingue, manzo. Prima del carrello, però, arrivano sul tavolo le salse. La mostarda di frutta, bella senapata, il rafano, che mi ha fatto passare il raffreddore, e le classiche verdi, cipolla, peperonata. Solo una volta sono riuscito ad andare oltre e a provare il carrello degli arrosti. Ma è stato uno sforzo non da poco e non ricordo bene cos'ho mangiato. Forse ero già in coma digestivo. I dolci però li ricordo, soprattutto la coppa Tassi: una piccola porzione di mascarpone con un amaretto sul fondo. In assoluto il più buono del carrello. Insieme al caffé viene servito un altro vassoio di cioccolatini e pasticcini, immagino per il gusto di torturare il commensale. Ma alla fine si assaggiano pure questi. Il tutto innaffiato da un semplice ma efficace lambrusco tagliato con bonarda, come si fa quasi ovunque lungo il Po: cibi grassi e vini leggeri. Per quanto vi sarete appesantiti la pancia (una passeggiata sull'argine e passa tutto) ci si alleggerisce poco il portafogli. Tra le 40 e 50 euro. Non uno di più!
“Certo che ti piacciono i sapori forti! Finalmente! Qualcuno che ci dà soddisfazione!” Non me l'aspettavo di essere lodato per la spesa; di vedere il negoziante contento, che si mette a chiacchierare dei prodotti, del suo lavoro, della giornata. In effetti i sapori forti mi piacciono, eccome. Non a caso sono uscito dalla bottega con una fetta di formaggio Stilton, una salsa di ceci e prosciutto e una terrina - piccola - di foie gras.
“Oggi in pochi si avvicinano a quei sapori. Alcune volte ci deprimiamo!” Continua il titolare della Salumeria Semprini, in via Michele Rosa a Rimini. E' ancora più felice perché gli ho appena chiesto quando arrivano le salame da sugo, per l'inverno. Quasi ogni sabato mattina sono qui - se non sono fuori città - per rifornirmi di sapori forti. Di quei prodotti dalla lavorazione lunga e complessa, che acquistano sentori, profumi e gusti molto decisi, spesso spigolosi e difficili da dimenticare. Alcuni non li vorrei mangiare, come il foie gras, che mi fa sentire male appena provo a ricordare come si fa. Ma è più forte di me. Quando ne sento la consistenza, gli odori e infine la cremosità ho già ceduto. Lo Stilton è meno crudele. Non è il topo investigatore, ma un formaggio “blu”, della famiglia del gorgonzola. Ma è inglese. Molto più burroso e salato della versione nostrana. Della salama da sugo è difficile parlare dato che non c'è un sapore a cui paragonarla. Immaginate un cotechino cicciotto, a forma di pera. Si mette a bollire per cinque ore. A fine cottura si porta in tavola, si apre, scoperchiandolo in cima, e poi si scucchiaia come un ragù sul purè. Gli ingredienti sono tanti, e cambiano a seconda delle preparazioni, comunque coppa, guanciale, fegato, del magro - sempre di maiale, noce moscata, aglio, vino rosso e altre spezie.
Con una spesa così, per quanto non economica, si risparmiano parecchi euro. Almeno per chi, come me, ogni tanto è assalito dalla voglia di mangiare cose gustose. Se si scelgono dei buoni fornitori, la casa si trasforma nel migliore dei ristoranti. Rimangono validi quelli in cui lo chef è creativo. In cui gli accostamenti diventano sperimentali. Gli altri sono superati, se non per la voglia di stare fuori casa.
“Peccato che i giovani snobbino questi sapori” Conclude Semprini. Io faccio la mia parte: li compro e invito gli amici a cena a provarli. E tra qualche giorno è di nuovo sabato...
Le Fontanelle sono - a mio modesto parere - il chiosco di piade e cassoni più buono di Rimini. E' buona la piada, sono ottimi i cassoni (soprattutto il rosso, mentre quello al prosciutto è forse un po' pesantuccio - per usare un eufemismo - ma comunque molto saporito), per non parlare dei condimenti, pomodori in gratin e salsicce e cipolle in testa. Certo gli affettati non sono presidi slow-food o prodotti ricercatissimi, ma sono comunque buoni e il risultato è davvero memorabile. Il tutto, condito dalla posizione panoramica e fresca, sulla grande terrazza che domina la città.
C'è un problema cronico: l'affollamento. Anche se quest'anno pare che ci sia un po' meno gente, ci sono delle sere in cui è difficile trovare un posto per parcheggiare la macchina e le attese per il proprio turno sono interminabili. Dopo una giornata molto stancante, ieri mi sono detto: ma chi vuoi che ci sia alle fontanelle un lunedì sera di fine agosto?! E così ci sono andato. Se mai dovessi cambiare lavoro, sono sicuro che non farò né l'aruspice, né il veggente. Il locale era pieno. Le macchine parcheggiate lungo la strada, ovunque! Così mi dico: amen! Vado a casa e mangio qualcos'altro. Arrivo in cima alla via in salita, quella della grotta rossa, e leggo un cartello: La Chiacchiera, con una freccia che indica sinistra. Ah! La chiacchiera! E' un po' che me ne parlano. E' un altro chiosco, sempre a Covignano - la collina di Rimini. Decido e curvo seguendo le indicazioni (ma guarda che caso, penso tra me e me, un'indicazione della Chiacchiera proprio a due passi dalle Fontanelle... chi l'avrà mai messa?!).
La Chiacchiera si trova proprio a San Fortunato, sotto i ripetitori del telefono. Se le Fontanelle hanno un bel panorama, questo è da Oscar. Si gode di una vista fantastica. Una porzione di costa a perdita d'occhio, da nord a sud. Anche il locale è più carino. C'è qualche pergolato e dei tavoli in legno molto carini, nulla a che vedere con i tavolacci delle Fontanelle, con quelle tovagliette a quadretti di plastica che sono lì da prima che io nascessi! E forse da prima che nascesse mio padre, e così via di generazione in generazione. Anche l'organizzazione è diversa. Qui si ordina dal tavolo. Ci sono vari piatti di affettati e formaggi, la piada viene portata in automatico: 2 euro piada e coperto (scelta un po' discutibile visto che una piada vuota costa un euro e ci sono solo tovagliette di carta col menù sopra). Ci orientiamo su un piatto di affettati misti, un piatto di culatello servito con burro aromatico e crostini di pane e del lardo di colonnata con bruschette all'aglio, più acqua e birra (siamo in 3). Tra le cose non scelte ci sono anche grigliate miste e fiorentine. In effetti ne vedo passare parecchie. L'aspetto è interessante. Il culatello non è di Zibello, ma è buonino, anche il burro aromatico è gustoso. Il lardo di colonnata è davvero buono, così come tutti gli affettati (forse il più debole è il prosciutto crudo).
Eppure, per quanto sia difficile crederlo per un locale del genere, il piatto più cattivo è proprio la piada. Sa di precotta. O comunque non è fresca, non è fatta lì per lì e cotta. E in effetti, andando in avanscoperta, si vedono i cuochi (niente sfogline qui) che prendono mazzi di piada da un frigo e le scaldavano. La piada cotta così diventa molto croccante in un primo momento, ma si fredda in fretta e poi tira che potresti lanciarla contro il muro. E' un po' una delusione. Una piada mediocre a Rimini è come una pizza cattiva Napoli. Il tutto per 40 euro. Qualche sapore buono in bocca rimane, forse anche la voglia di provare qualcos'altro, ma non con una piada così! La mia idea è che la Chiacchiera voglia fare il verso un po' alla Sangiovesa (un grande - e costoso - ristorante/piadineria di Santarcangelo) ma senza riuscirci. Bòn! Torneremo ad appoggiare i gomiti su quelle orribili tovaglie a quadretti, ascoltando i pavoni che starnazzano in lontananza!
Quando mi hanno detto che al Molino Rosso di Imola si mangia bene la cosa mi ha colpito. Non che avessi dei preconcetti sul locale, che non conoscevo, ma più che altro per la sua ubicazione a due passi dal casello della città emiliana. Siamo abituati a cercare i luoghi più incontaminati e i ristoranti più nascosti convinti dell'analogia: più un ristorante è fuori dalla civiltà più si mangia bene, per cui, l'idea di mangiare a poca distanza dalla corsia di emergenza dell'A14 mi aveva lasciato perplesso. Capiamoci, il Molino Rosso non è una stella Michelin, ma è un luogo interessante, e sicuramente può (o, meglio, poteva) essere una valida alternativa ad un pranzo di viaggio consumato con i panini dell'autogrill dai nomi che richiamano il sole e il mare e il sapore che invece richiama il cartone e il dado knorr.
Da fuori è un casermone rosso e dentro lo stile lussuoso anni '70 sa un po' d'antico. La sala da pranzo è a dir poco enorme, con delle nicchie - carine - in cui ci si può sedere con i commensali e avere un po' di privacy. I lampadari di cristallo fanno tanto Grand Hotel (non la rivista di fotoromanzi) e a guardarli si materializzano pensieri di persone spiaccicate sotto il loro devastante peso.
Ma veniamo alla parte gastronomica. Il personale è veloce e competente, e i piatti sono quelli tipici della cucina emiliana. Noi abbiamo provato dei buoni cappelletti verdi con ripieno di mortadella al burro fuso e pistacchi e dei tagliolini al guanciale, funghi e pecorino di grotta. Entrambi i piatti facevano bella figura per i sapori sempre ben distinti e di qualità, e la composizione. Sui secondi siamo stati più spartani e ci siamo lasciati andare con un po' di affettati (alcuni buoni, come la coppa, altri meno notevoli) e un misto di frittura. Fin qui tutto bene. Parere positivo. Un pensiero: abbiamo trovato la sosta alternativa per i viaggi sulla A14!
Poi le brutte sorprese sono arrivate al conto.
Ci sono locali in cui si spende molto. Ma la spesa è comunque giusta, perché si pagano delle materie prime eccellenti, un cuoco che si ingegna e sperimenta, e una spesa fresca e di giornata. Ci sono invece altre volte in cui le spese sono un furto, come nel caso del Molino Rosso. 3 euro e 50 di coperto non si possono proporre senza prima informare il cliente che se vuole può avvisare il proprio avvocato. Non c'è pane fatto in casa che tenga: 3 euro e 50 sono uno sproposito. 2 euro e 50 d'acqua, soprattutto quella ottenuta con apposito decalcificatore e purificatore dall'acqua del rubinetto sono una follia. Molti ristoranti la servono gratuitamente. 1 euro e 60 di caffé dà credito della filosofia: di qui passano viaggiatori che non tornano e quindi li spenniamo. Corollario di questa teoria i 7 euro e 50 per mezzo litro di vino.
A conti fatti, io, insieme ad altri 4 amici, ho lasciato al Molino Rosso più di 30 euro per non si sa bene che cosa. Non per i piatti, non per il servizio né per un ex-voto, né tanto meno per cercare di corrompere qualche politico imolese e avere una carriera nell'amministrazione pubblica locale, più probabilmente sono 30 e più euro di dogana, o di tasse autostradali, non so. Queste cose sono davvero tristi e danno conto di una tendenza della ristorazione locale - quella cioè di “fregare” il cliente (tesi sostenuta dal fatto che i prezzi del coperto e delle bevande non si trovano nel menù all'esterno) - davvero dura a morire.
In conclusione: fino al conto lo avrei consigliato, dopo, ognuno si faccia i propri calcoli e valuti se ha 30 euro da buttare via. Il resto può essere ben speso.
"La cultura del wurstel, in Italia, è davvero molto bassa". Inizia così, con queste parole di uno standista, la mia visita al TuttoFood di Milano, la fiera dedicata al mondo dell'enogastronomia, o, come viene chiamato oggi, il Food & beverage. Sono qui a guardare e assaggiare cosa succede nel mondo della grande distribuzione. Sì perché TuttoFood è uno spazio dedicato soprattutto alla promozione e all'industria del cibo, più che ai piccoli produttori, come solitamente accade oggi.
Ma torniamo ai wurstel, la cui cultura, in Italia, è molto bassa. Non so se lo standista stesse facendo battute e allusioni sessuali nei miei confronti o se si riferisse proprio alla percezione dei wurstel tedeschi nel nostro paese. A favore della seconda ipotesi va detta una cosa. Fuori Italia si mangia bene, ma non si dice. C'è un po' la tendenza, da queste parti, a considerare buono, genuino e sano tutto ciò che è italiano, e robaccia tutto il resto. Forse, forse, si salva solo la Francia da questo calderone di preconcetti. Ma non sempre. Eppure, tra le cose migliori che ho assaggiato durante questo tour, la maggior parte erano extra-italiote. Buona, tenera e sugosa la carne di vitello inglese, di razza Angus. Davvero sfiziosi i sottoli (cipolline e peperoncini) ripieni di formaggio morbido fresco - preparati dallo stand austriaco, insieme a panini coi semi di papavero e ai pretzel. Per non parlare del burro fatto sul momento in uno stand dell'Alto Adige - che magari sono anche italiani, però parlano tedesco - gustoso, grasso e soffice, spalmato su una fetta di pane nero speziato!
Tra i paesi in mostra c'è anche il Kazakhstan che si presenta con uno stand enorme, azzurro, pieno di prodotti di difficile decifrazione e scatolame vario. La cosa più inquietante è una scatoletta su cui è stampato il volto di un gatto. Ma non penso sia cibo per gatti. E spero non sia neppure gatto in scatola. Magari il gatto ha una funzione apotropaica, oppure, secondo i comunicatori e i pubblicitari kazakhi, il gatto incentiva l'acquisto di scatolette di carne bovina. Un po' come se dicesse: miao! se potessi scegliere, anch'io, che sono un predatore, comprerei questa carne qui! mica quegli orribili croccantini! Lo stand ha anche organizzato un piccolo spettacolo. Improvvisamente comincia una musica tipica - suonata con uno strumento simile ad una chitarra - ed una bella ballerina con un vestito giallo e un copricapo con le piume comincia a muoversi in modo ritmico, quasi come una marionetta, facendo finta di suonare. In alcuni momenti ricorda un ballo del teatro cinese. Bello, non fosse per la scenografia di luci al neon blu, standisti con piattini ricolmi di crostini e la faccia paonazza che guardano e fotografano e il vociare continuo degli altoparlanti.
Finita la pausa culturale, si torna al cibo, sia esso un semilavorato per pasticceria o lo stand pugliese completamente ricoperto di olive. E poi salsicce polacche, un ottimo burro prodotto dal latte di bufala (yum!), il gelato fatto con latte di capra, e decine e decine di stand di salumi e affettati. Mortadelle, prosciutti (buoni quelli col pepe di Renzini), salami, lonzini, N'duje e ogni altro ben di Dio. Ma non tutto è interessante. Perché a fianco degli stand delle regioni, o dei paesi, si trovano anche i singoli produttori. E se alcuni mostrano cose interessanti, altri lasciano un po' a desiderare. Come i bidoni da cinque chili ripieni di pesto. O vasetti grandi come il colosso di Rodi con migliaia di carciofini sottolio. E' davvero difficile coniugare qualità e grande distribuzione. Non tanto - o non solo - nei fatti, ma proprio nell'immagine. Vedere in un frigo aperto tranci di carne bovina grandi come un bambino di quattro anni, ancora sanguinolenti, sarà sicuramente un modo per denotare la freschezza del prodotto, ma ha anche un che di profanatorio. Turbano anche le grandi foto di bovini placidi su enormi distese d'erba, perché la stessa foto la si ritrova sia presso i produttori di latte e formaggi (e si può capire che la mucca sia tranquilla, nonostante i ritmi di lavoro stressanti), sia presso produttori di carne (e qui, la placidità della mucca risulta un po' fuori luogo, come l'insegna di una macelleria, a rimini, in cui un maiale, sorridente, si affetta una coscia dando vita a delle belle fette di salame tonde). La difficoltà di superare questo impasse della comunicazione la si percepisce proprio nei messaggi pubblicitari, che sono principalmente di due tipi: a) la qualità è per tutti (sottinteso: e noi, che la produciamo, ve la portiamo), b) la qualità è per pochi (sottinteso: voi siete tra quei pochi, e noi ve la portiamo). Il messaggio che parte dalla qualità finisce per arrivare al grottesco, come quello di un'azienda che commercializza salmone pescato, a detta loro, solo nelle acque incontaminate dell'Alaska, ma soprattutto con pesca all'amo. Per ogni singolo salmone, quindi, c'è un pescatore che getta l'amo, si mette il cappello in testa, e ronfa fino a che quella bestia di svariati chili non tira la lenza facendo muovere il galleggiante. A quel punto, per preservare la superiore qualità dei salmoni dell'alaska, i pesci vengono uccisi a pugni sopra gli occhi, o con gomitate al basso ventre, poi squamati a lingua, e infine inscatolettati.
Il castello della Pieve è un piccolo borgo arroccato su una collina rigogliosa a pochi chilometri da Mercatello sul Metauro. E' un luogo fuori dal tempo e anche fuori dalle strade principali.
Di qui passò anche l'esiliato Dante, e una targa ne ricorda il transito. Anche oggi è necessario esiliarsi un po' e abbandonare le comodità e le brevi distanze per arrivare fin quassù. Ma è un viaggio che ripaga. Sia per il luogo, bellissimo e intonso, con le grosse pietre color ocra che danno vita ad un borgo che sembra uscito da un quadro di Turner; sia per la cena al ristorante Il girone dei golosi (si nota che è passato Dante?), un locale in cui la fantasia regna in tavola. Questo è uno dei grandi meriti della cucina, anche quando i piatti non riescono perfettamente. Si sente la passione, la voglia di sperimentare e di mettere assieme prodotti anche lontani, e nel contempo di riportare in vita ricette passate, come il filetto di maiale con mele caramellate, dal sontuoso sapore rinascimentale. Ma ciò che ancora di più si percepisce nel piatto sono gli ottimi prodotti, le materie prime su cui vengono costruiti i piatti. I formaggi, le ottime carni, ma anche le verdure e i salumi sono tutti del territorio, e si sente nell'intensità, nei profumi e nei sapori. Prima ancora della ricetta, si gusta davvero la bontà del prodotto.
Un titolo quasi leopardiano, me ne rendo il conto, dietro il quale si nasconde in realtà un argomento molto più leggero rispetto a quelli trattati dal poeta di Recanati, ma comunque di pressante urgenza! Qui si parla di gelato - che tra l'altro era anche una delle grandi gioie di Leopardi nei suoi ultimi anni napoletani. Il gelato a Rimini è un'istituzione. Lo è perché questa è una località di vacanze estive. Per me lo è sempre stato perché, rispetto ad altre città, qui il gelato lo hanno sempre servito a spatolate e mai con le odiose palline che non ho mai sopportato - solo una per gusto?!
Ma anche i gelati hanno una loro darwiniana evoluzione. E sopravvivono solo i migliori. Come per la ristorazione locale, per anni l'unico metro di valutazione è stata la quantità. Un grande gelato corrispondeva ad un gelato buono (e ci abbiamo messo anche un chiasmo). D'altronde i ristoranti della riviera erano famosi per i piatti traboccanti di tagliatelle e strozzapreti al ragù. Che poi la qualità fosse dozzinale era secondario. L'importante è che fossero tanti.
Poi le cose sono cambiate. E' aumentata l'attenzione alla qualità, alle materie prime, ai gusti. E il gelato è decisamente migliorato. Alfieri del cambiamento sono stati i due gemelli del Biodelirio, ora attori famosi sotto l'ala di Chiambretti, e molte altre gelaterie ne hanno seguito l'esempio.
Ma da un paio di anni, uno spettro si aggira per le gelaterie riminesi: la bilancina e il cucchiaino per le livellature. I primi ad usare questi strumenti del demonio sono stati quelli de La Romana, una gelateria che da sempre ha fatto dell'antipatia il proprio biglietto da visita. Ma in pochi mesi la piaga si è allargata a macchia d'olio, colpendo prima Il Pellicano, e ora, purtroppo, la gelateria Il Castello.
Ma facciamo un passo indietro. La bilancina e il cucchiaino sono due strumenti che intervengono quando si acquista un gelato in vaschetta da portare via. I classici mezzo chilo, tre quarti o un chilo. Il gelataio riempie la vaschetta con i gusti richiesti, e poi, prima di chiuderla, la mette sulla bilancia e la pesa. Se il peso è in eccesso, con il cucchiaino vengono limate via alcune leccate di gelato che altrimenti il compratore avrebbe gustato vergognosamente a gratis (moto a luogo), a meno che, lo stesso compratore, sia disposto a pagare la differenza. Ora, voglio dire, le vaschette hanno un peso standard. Sono realizzate per contenere la quantità indicata. Non si ha mai la certezza matematica che il peso definitivo corrisponda esattamente a quello indicato. Ma in definitiva, di quanto può mai variare? I danni economici che le gelaterie hanno ricevuto per tutti gli anni senza bilancia, hanno creato un buco incolmabile? Il loro PIL è caduto in picchiata? Insomma, fa parte del normale rapporto di scambio: una volta la vaschetta è un po' più piena e una volta un po' più vuota. E siamo pari!
Non capisco. Di certo è che la scena è davvero fastidiosa e antipatica. Quando la ragazza che prepara la vaschetta si gira e la mette sulla bilancia e poi comincia a spatolare via, ci si sente come un ladro colto sul fatto. Ah! - sembra dire - volevi mangiarti un po' di gelato a sbafo, eh? stronzetto?! Ma no... - provi a ribattere - non è così. Io volevo solo mezzo chilo di gelato al pistacchio, che piace tanto a mio figlio! Bravo - urla lei con le lacrime agli occhi - è così che educhi i pargoli? Come cresceranno i cittadini di domani con questo esempio?! Lo vedi, lo vedi - continua a sbraitare indicando verso il laboratorio - là il gelataio impasta con le mani nude! E le sue dita quasi si spezzano per il freddo! Eppure continua a mantecare il gelato. Ed ogni cucchiaino di quel gelato ha un valore inestimabile! E tu, TU - ora è in piedi sul bancone - tu invece volevi mangiarlo senza pagarlo, come se il suo lavoro non valesse nulla, vero?! No guardi! - dici ormai in ginocchio - pago! pago la differenza! Mi dica quanto le devo in più! Sono 5 centesimi. Grazie Arrivederci.
Con somma tristezza ho visto che da poche settimane la bilancia è arrivata anche alla gelateria il Castello, la nuova gelateria in piazza Malatesta, di fronte alla Rocca. E' stato un colpo durissimo per gli amanti del buon gelato. Questi giovani gelatai, alfieri della qualità riminese, da noi tanto amati e apprezzati - nonostante le file lunghissime e i musi un po' lunghi - si sono convertiti al peso della vaschetta. E tra l'altro - 'sti simpaticoni - visto che le coppette piccole non si possono pesare, le fanno ora semivuote! Eccheppalle! Tenetevelo questo gelato se proprio non lo volete vendere!
Torneremo al bio delirio! Otto ore di fila per una coppetta, ma almeno nessuno che la pesa!
In Romagna si mangia romagnolo? Sì, ma solitamente lo si fa in casa. Una mamma, una suocera, una nonna o al limite un'amica di famiglia che prepara cappelletti, strozzapreti o altri piatti della tradizione si trova sempre.
Tra il mare e le prime colline ci sono anche centinaia di ristoranti. Molti sono davvero dozzinali, ma ce ne sono alcuni che sanno lavorare bene. Niente innovazioni, niente "trastulli", niente rivisitazioni, ma buoni piatti della tradizione. E' vero che la cena o il pranzo fuori sono più interessanti se sono un'esperienza culinaria, ma alla fine non si disdegna neanche l'uscita tra amici attorno alla tavola a mangiare piatti semplici. Tra i miei ristoranti della zone preferiti ci sono Zanni (niente primi, però, davvero deludenti, ma ottime carni e insuperabile la piada), Ro e Bunì (un po' pesantuccio, ma un classico), L'Osteria dei Frati (la parte più romantica), ma anche Duslaun, la Sangiovesa (siamo in zona carne e affettati, niente pesce), e da oggi Il Tiro a Volo.
Il Tiro a Volo è una piccola struttura (brutta, una sorta di prefabbricato squadrato) sulla riva destra del fiume Marecchia, ad una manciata di chilometri da Rimini. La zona è molto suggestiva ed è raggiungibile anche in bicicletta lungo la ciclabile del Marecchia. La scorsa primavera ci sono capitato a metà di un giro per un po' d'acqua e un caffé, e il posto mi è sembrato interessante.
Alla prova ha confermato le impressioni. Pappardelle al sugo di lepre, cappellacci con ripieno di ricotta e con sugo di funghi e, per secondo, coniglio in porchetta con contorno. Tra i piatti non provati c'erano anche del piccione e la grigliata mista. Molto buono il coniglio: saporito e gustoso. I primi equilibrati: carichi (alla romagnola) ma non pesanti, con un ottimo ragù e sugo di funghi. I dolci li abbiamo persi per poco - siamo arrivati tardi ed erano finiti - ma la ciambella di consolazione è stata buona. Spesa, 80 euro in 4 (per un bis di primi per quattro e due secondi con contorni, acque, dolci e caffé).
Siamo arrivati al ristorante Dal Corto in un sabato sera d’agosto, con un gran caldo e senza aver prenotato. Il ristorante era pieno, e il timore era, come spesso accade, che tutto lo staff fosse completamente in panne. E invece, molto gentilmente, ci hanno trovato un tavolo (eravamo in 4) per una mezz’ora più tardi. Siamo tornati, puntuali, e tutto era pronto. E anche durante la cena siamo stati seguiti a puntino e senza sbavature.
Il ristorante dal Corto è davvero un piacevole angolo di Sicilia nella chiassosa Rimini. Si apre sulla piazzetta San Martino, alle spalle di piazza Cavour, che dopo decenni di abbandono sta rinascendo grazie ai numerosi locali che hanno preso dimora qui. Noi, invece, abbiamo preso posto al nostro tavolo, nella graziosa corte interna e abbiamo dato il via alle danze. Gli antipasti sono molto intriganti. Il Pomodoro alle uova di tonno e cacio è fantastico. Buona la bottarga, ma quello che colpisce è l’olio di oliva, profumato e fragrante come pochi. Sfiziose anche la panelle - frittelline di ceci - e le olive all’ascolana che in realtà sono solo la piccola parte di un ricco piatto di fritto che comprende anche cremini e melanzane fritte.
Nei primi spiccano gli spaghetti alla norma, specialità siciliana con pummarola e fette di melanzana fritte. Molto buoni anche i maccheroni alla ragusana, con acciughe e pan grattato sopra al posto del grana. Il mio tour “salato” si è fermato qui, ma in realtà il menù promette altri grandi piatti come la caponata di melanzane, gli arancini di riso, il caciocavallo ragusano con confetture artigianali di nero d’Avola e zagara d’arancia e gli spaghetti alla liparese, con capperi e olive.
Piuttosto pieni, abbiamo saltato i secondi (soprattutto carni) e ci siamo gettati a capofitto sui cannoli siciliani. Buoni, buonissimi, con la autentica pasta artigianale (è davvero raro trovarne) e una ricotta cremosa e saporita. Freschi e golosi anche quelli in versione estiva, con gelato di zabaione come ripieno. Il tutto, accompagnato da un dolce bicchiere di zibibbo. La spesa si è attestata sui 25 euro a persona (antipasto, primo e dolce - no vino). Forse non economicissima, ma sicuramente ben spesa, viste le buone materie prime utilizzate.