Pensai che in un paese nuovo c'è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, e ripercorre la stessa strada da dove ero venuto non sarebbe stato particolarmente interessante o istruttivo.
In occasione della giornata della memoria, domani, 27 gennaio, il quotidiano Repubblica regalerà col giornale le opere di Primo Levi. Se questo è un uomo è uno dei libri più toccanti sulla tragedia degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. E, per fortuna, è un libro che ogni libreria possiede, in molte edizioni, alcune delle quali davvero degne di nota - probabilmente migliori dei fondi di magazzino che regala repubblica. Allora, perché regalarlo? Per ricordare la Shoah? Sì, diciamo così. Forse, però, uno se la ricorderebbe meglio se uscisse di sua spontanea volontà per comprarsi il libro.
Un modo migliore per celebrare la giornata della memoria, invece che regalare il libro di Primo Levi, sarebbe evitare di far uscire le dispense di Libero dedicate a Mussolini e che raccolgono gli scritti, le lettere e altre carte del duce. E non tanto per una questione di censura o di divieto, ma per il fatto che tutte queste uscite non cercano di gettare luce su un personaggio storico sicuramente complesso e che, come tutti gli attori della storia, dovrebbe essere studiato libero da pregiudizi politici, ma perché tutte queste uscite pseudo storiche hanno solo la funzione di riabilitare o almeno di rendere meno distante una figura storica che - fuori dalla ricerca accademica - dev'essere condannata per ciò che ha fatto e non riabilitata.
Memoria non è ricordare passivamente. E già! Domani mi concentro e penso tutto il giorno agli ebrei, intensamente. Mi faccio scorrere in testa tutte le foto viste milioni di volta con quei corpi grigi e magrissimi, al limite dell'umano (e che ti fanno chiedere se questo è un uomo), i pigiamini larghi, gli occhi infossati, e poi a mezzanotte e un minuto: vaffanculo! E mi metto a leggere le lettere del duce, magari pensando: ah però! certo che era un tipo che aveva le sue ragioni. E poi, diciamocelo, in quegli anni i treni arrivavano in orario, altro che!
E se serve un dittatore, un pater patriae, un uomo forte affinché i treni partano e arrivino nel momento in cui devono... allora sia! Cosa sono le nostre libertà e la vita di tanti innocenti al confronto?!
Oppure, una controproposta: il 27 gennaio ricordiamo gli ebrei vittima dei regimi nazisti e fascisti (e comunisti, va!). il 28 gennaio ricordiamo le vittime dei treni in ritardo, tutti gli uomini mai tornati a casa... in orario! il 29 gennaio ricordiamo tutte le lettere che il duce non scrisse mai, le parole non dette, i sogni non realizzati (che ne so, la conquista della Corsica ripresa a quei maledetti mangiarane!) il 30 gennaio giornata globale: ricordiamo le lettere che non sono mai state scritta da ebrei poi finiti nei campi di concentramento su treni in ritardo.
di stefano del 23/01/2009 @ 16:40:40, in viaggi, letto 1313 volte
Città di Castello mi evita, mi schiva, non mi vuole. Non so perché! Non le ho fatto nulla, anzi! Io mi reco da lei con tutte le più buone intenzioni, approfittando dei viaggi di lavoro di Paola, per fare qualche foto, osservare qualche scorcio, trovare uno spunto per scrivere un articolo... e invece nulla! Ogni volta lei, sdegnosa, si presenta a me trasandata, scostante e irascibile.
Ma io insisto, e torno! Forse, se non fossi così pessimista noterei anche dei miglioramenti. Ad esempio ho visto che ora non solo le macchine, ma anche i pedoni possono entrare nel centro storico e passare sotto le mura dei palazzi, o magari fermarsi in sosta da qualche parte. Ed ho visto anche che è rimasta immutata la costante di impacchettamento - chiamata anche Costante CdC - per cui un numero uguale di edifici è sempre impacchettato o sotto cantiere: cambiano gli edifici, ma il numero rimane uguale. Gli studiosi sono ancora in disaccordo sul numero, ma è sicuramente sopra i 20. E' probabile che il CdC di Città di Castello sia lo stesso di Pechino e New York, tre città in continuo fermento culturale.
Ma a dispetto del precedente viaggio, questa volta non ho trovato la neve, bensì la pioggia. Così, mogio mogio, dopo una breve passeggiata per il centro storico, non sapendo che altro fare mi sono recato al Museo Diocesano del Duomo. Devo essere stato l'unico ad avere avuto questo pensiero, perché il museo era vuoto. Non un male, certo, perché ho sicuramente evitato code e turisti fastidiosi, ma un peccato sì, perché per quanto piccolo, il museo del duomo di Città di Castello nasconde qualche pezzo interessante, anche se chi lo gestisce ha una certa incapacità di fondo ad invogliare la gente a visitarlo.
Pago, e aspetto che la signora accenda luci e riscaldamento. Poi comincio il giro. Mi accorgo che nella seconda stanza sono esposti alcuni pezzi interessanti. Torno alla cassa. Posso fare qualche foto, chiedo. E no, mi risponde gentilmente la signora, non si può. No. E in effetti li capisco! Fare foto e divulgare le opere rinchiuse in queste sale sarebbe un duro colpo per l'economia del museo. Orde di turisti potrebbero “scroccare” le opere a casa invece di recarsi a Città di Castello. E poi, probabilmente, l'esclusiva sulle foto l'avrà già ottenuta il figlio del Vescovo. Nonostante l'assenza di altre persone e di controlli mi attengo alle direttive, e non faccio foto. Nella sala II mi trovo davanti ad un bellissimo palliotto d'argento del secolo XII. E' davvero un capolavoro. Le figure sbalzate hanno quella caratteristica espressione delle raffigurazioni dell'alto medioevo, ancora così ingenue e un po' naif. Il cristo, poi, ha un impercettibile sorriso e due occhi grandi, enormi e sereni, e sembra quasi dire: ma che volete ancora da me?!
Vorrei davvero farvelo vedere. Non ho fatto foto, ma qui c'è il link al sito del museo. Come vedete, la foto è molto lontana. Probabilmente è stata scattata da Anghiari. Ed è giusto così, perché a vederlo da vicino, da troppo vicino, magari vi sarebbe venuta l'idea di copiarlo e di dire che è vostro, oppure, secondo l'estetica romantica, avreste provato una piacevole sensazione e goduto di uno strano miscuglio di benessere e malinconia tutto il resto della giornata, rovinandovi la cena. Così, al museo hanno deciso di farvelo solo intuire, un po' come la fede. Se lo vedete sarete salvi, altrimenti problemi vostri.
Meno interessante il piano di sopra, trionfo del '600 con quadri mostruosamente cupi e ritratti su fondo nero, opere più povere e senza quella forza spirituale presente nel primo medioevo. Una lunga teoria di ritratti di personaggi oggi sconosciuti ci ricorda che il tempo cancella ogni cosa, e distrugge tutto, sia che decidiate di farvi siliconare ogni ruga, sia che vi facciate ritrarre in mille pose. Un pezzo bello di sopra c'è. Ed è una pergamena imperiale con sigillo di Federico Barbarossa, del 1163.
Il percorso del museo mi porta prima davanti ad una scala con un cartello: divieto di uscita (questo l'ho fotografato). Poi, finalmente, trovo un'altra strada che conduce, in fondo ad un corridoio, ad un ascensore col quale spero di uscire. Spingo il pulsante. Attendo. Attendo ancora. Spingo di nuovo il pulsante. Attendo due volte. Torno indietro. Ripasso davanti al cartello Divieto di uscire. Ho paura. Non vedrò più la luce del sole, il volto di mio figlio, il vento dolce della primavera. Poi vedo la scala con la quale sono salito, corro verso l'uscita, la salvezza, la vita.
La giornata finisce piacevolmente ad Anghiari al ristorante la Nena, trionfo di cucina toscana, con degli ottimi crostini di fegatini e milza e uno sformato di selvaggina che mi ha rimesso in pace col mondo!
Per una vita migliore, per una maggior sicurezza, per poter dare un futuro radioso ai nostri figli c'è una sola scelta giusta: trasferirsi in Norvegia. E non lo dico per una stolida e modaiola passione per i paesi scandinavi - sempre primi, nelle statistiche, di educazione civile, servizi sociali e rispetto della legge (tranne il quartiere svedese in cui è ambientato "Lasciami entrare", dove avvengono i più efferati omicidi!).
No, lo dico per un motivo molto più... scientifico! E' una semplice questione di sopravvivenza!
Guardate questa bellissima animazione. E' la terra. La deriva dei continenti dalla Pangea sino ad oggi, e poi anche nel futuro. Già a 0:22 minuti del filmato, circa 22 milioni di anni fa, la Norvegia è riconoscibile più o meno nello stesso luogo di oggi e più o meno con la stessa forma. Attorno al minuto 0:42 - abbiamo da poco superato i 50 milioni di anni nel futuro - quando l'Italia, per la gioia di Bossi e tutta la lega nord, tornerà a far parte dell'Africa - la Norvegia sarà appena un po' stiracchiata.
A 0:51 secondi, ad oltre 150 milioni di anni nel futuro, l'Europa continentale è ormai una propaggine della costa nord-Africana (ha! la geologia ha un gran senso dell'ironia!) mentre Inghilterra e paesi scandinavi ancora resistono! Infine, anche verso la fine del filmato (1:11), ad oltre 250 milioni di anni nel futuro, quando anche finalmente i paesi scandinavi si riuniranno alla grande massa continentale, la Norvegia sarà ancora facilmente riconoscibile, per quanto non più separata dal mare.
Grande paese la Norvegia, capace di resistere ai movimenti delle placche tettoniche! E grande paese la Norvegia, che ospita un esule ceceno, il padre di Elza, una ragazza stuprata e uccisa dai soldati russi e il cui nome è divenuto simbolo della lotta contro gli abusi commessi dalle truppe russe in Cecenia. Per evitare che il simbolo simboleggiasse un po' troppo, un sicario, mandato da un oscuro oligarca, ha ucciso l'avvocato accusatore e la giornalista che seguiva il caso: Stanislav Markelov e Anastasia Baburova. La povera Baburova, considerata l'erede della Politkovskaya, aveva appena venticinque anni. Non l'hanno neanche fatta arrivare ad essere una Politkovskaya. L'hanno ammazzata prima. La nuova strategia della politica armata russa è quella di eliminarli sempre più giovani. I prossimi giornalisti e avvocati li ammazzeranno in culla. Erode docet.
Non vorrei che qualcuno pensasse che stia accusando Vladimir Putin, che invece stimo come grandissimo statista, anche se, purtroppo, non posso chiamarlo mio amico.
Un gioco enigmistico: come continua la serie dei mesi: ottobre 2008, dicembre 2008, marzo 2009? Secondo un semplice calcolo di logica (politica ed economica) si ottiene: giugno 2009. Questa, se non spuntano fuori altre varianti o rallentamenti, dovrebbe essere la data di apertura di Ikea a Rimini. Pare che il don rodrigo dei mobili riesca ad aprire per quella data e, di conseguenza, aprirà anche l'Ikea che è già fatto e finito, probabilmente ricolmo di panettoni ormai marcescenti e con i dipendenti in attesa o momentaneamente dislocati in strutture limitrofe. Sì, perché come un vero signorotto locale, il don rodrigo dei mobili in legno quando deve andare in fondo e attuare il suo piano non guarda in faccia nessuno e non si preoccupa delle vittime civili e collaterali (a dirla tutta nessuno si preoccupa mai delle vittime civili e collaterali. Anzi, sono già messe in conto).
Ma tutti noi che abitiamo in questo piccolo paesone marittimo, sappiamo che il nostro signorotto locale può fare anche di meglio. Anche perché, prima o poi, l'Ikea aprirà. E allora, a quel punto, come potrà evitare che orde di acquirenti, appena usciti dalle befane e ancora con la bava alla bocca e la Carta di Credito con la rabbia, si riversino nel negozio svedese e non nel suo? Alcune soluzioni al vaglio del suo staff di pubblicisti ed esperti della comunicazione sono la sostituzione del nome del negozio in Mercatone Ikea, Ikea Italia, The real Ikea, Ichea, Merchichea. Un'altra soluzione potrebbe essere quella di soddisfare i più reconditi desideri dei riminesi e lasciare libertà di parcheggio all'interno del negozio, proprio davanti alla cucina da acquistare, o sulle scale mobili.
Tra tutte le soluzioni prese in considerazione (anche quella di far consegnare, ogni mattina, una testa d'alce davanti alla porta d'ingresso dell'Ikea) non c'è l'idea di una concorrenza sullo stesso piano. E noi, qui, ci sentiamo di suggerirla. Perché non valorizzare i propri mobili con nomi simpatici, come quelli del colosso svedese, ma presi dalla nostra tradizione? Ecco, allora, che si potrebbe incuriosire la gente invitandola a comprare la cassettiere piadèna, o la cucina nascosta in un piccolo mobile: mo-sta-bòn. Già me lo vedo il passaparola, la voce che vola da una bocca all'altra e la voglia di andar a comprare il lettino dio-svegg o la libreria componibile tistunazz. Vuoi mettere la figura, quando gli amici entrano in casa e chiedono: bello quello!, cos'è? Ha! - risponderete voi - è il at-dag-du-sciaffli, il nuovo angolo scrivania di The real Ikea, quello di rimini. Dio bo! risponderanno allora i vostri amici, se veri riminesi!
La guerra, si sa, è una bella cosa. Dai tempi d'Omero viene decantata e scolpita negli immortali versi dei poeti. Che i protagonisti siano due eroi gagliardi che si scontrano su carri dorati sotto le mura di un'antica città o una quarantina di bambini morti sotto le macerie della propria scuola distrutta da due proiettili sparati da carri armati il risultato non cambia: ammazzarsi a vicenda è una delle attività umane più antiche, e l'unica per cui non servano vere e proprie ragioni.
Lo si può intuire dalla ricostruzione - sommaria - dei fatti degli ultimi giorni in Israele e Palestina. Soprattutto dal più atroce: la distruzione della scuola elementare femminile dell'Onu del campo profughi di Jabaliya, nella striscia di Gaza. Una nota del comando israeliano afferma che “Israele non sapeva che c'erano civili nella scuola”. E in effetti è raro che ci siano civili nelle scuole. E' più probabile, almeno se è vero quello che imparo osservando attentamente i film hollywoodiani, che gli edifici scolastici siano pieni di gang di negri rapper incazzati col mondo che sparano a tutta randa. Questo, tra l'altro, concorderebbe con la tesi data dai soldati israeliani. E cioè che alcuni colpi d'arma da fuoco erano stati sparati dalla scuola verso le truppe israeliane. Uno studente testimone afferma: “Li ho visti arrivare. Pensavo fossero i nuovi docenti e ho sparato”. Anche in questo caso, la migliore strategia militare è stata quella del: nel dubbio, spara. O come dicevano i latini: si vis pacem para bellum. Che si può tradurre con: visto che vogliamo conquistare tutto il mondo avete due chances, o state buoni e vi fate sottomettere, o vi prendiamo tutti a ceffoni. Dopo l'attacco delle truppe israeliane alla scuola, il segretario dell'Onu Ban Ki-moon è andato su tutte le furie: in primo luogo le truppe israeliane non si devono permettere di bombardare un edificio dell'Onu. La prossima volta i bambini vanno trasportati in un edificio limitrofo e bombardati in loco. In secondo luogo è urgente una politica che spalmi le vittime civili minorenni palestinesi in tempi più lunghi, perché di questo passo potrebbero finire prima della fine delle ostilità.
Tra voci e smentite, il comando israeliano ha negato che i quattro soldati israeliani morti siano stati uccisi da miliziani di Hamas, ma da fuoco amico. Gli ordini degli alti vertici sono ferrei: tutti i caduti vanno “ri-colpiti” da proiettili amici, per evitare che si dica che il nemico abbia colpito un soldato israeliano. Lo stesso trattamento sarà riservato anche ai feriti gravi trovati sul campo, e anche ai malati terminali, via!
Certo, quando si parla dell'insensatezza della guerra non si può essere unilaterali. E se da un lato i soldati e i comandi militari israeliani sono pazzi e assassini, dall'altro un palestinese che spara da una scuola elementare (se la versione corrisponde a verità) sa benissimo che gli altri non risponderanno con un missile teleguidato indirizzato verso il quartier generale dei nemici della pace, ma molto probabilmente avranno la tendenza a radere al suolo il palazzo da cui è stato sparato il colpo. Chi ha ragione? Beh, tutti! E ora che dimostriamo al pianeta che non siamo così evoluti come sembra. Grande tecnologia in mano a grande aggressività: questa è la nostra carta d'identità! Quella è la mezzaluna fertile, e allora è giusto che - come nel risiko - se la prenda che rimane con l'ultimo carrarmatino. La convivenza è per i deboli e i finocchi.
A conclusione di questo mio piccolo personale sfogo, dato che sono un piccolo giornalista sconosciuto, vorrei lasciare la parola a chi sa fare meglio di me questo mestiere. Fares Akram è un giornalista palestinese dell'Independent. Andato in Palestina come corrispondente di guerra, ha scoperto che la casa di suo padre era stata bombardata e distrutta, e suo padre ucciso. Qui si può leggere il suo articolo. E questa è la sua conclusione: “Quale sarebbe davvero la differenza tra quelli che Israele chiama terroristi e i piloti israeliani che sganciano bombe su una fattoria? Qual'è la differenza tra il soldato che ha fatto a pezzi mio padre e i militanti che danno fuoco ad un razzo?”
E quindi mi chiedo: si può finalmente dire che la politica israeliana è una politica estremamente aggressiva e violenta senza per questo essere considerati antisemiti?
Diciamocelo: l'anno nuovo non è cominciato nel migliore nei modi. Aprire i giornali e leggere che Michael Schumacher è un po' intristito per il suo quarantesimo compleanno è una cosa che smorza anche il più ridente gennaio. Condivido la sorpresa dei giornalisti davanti alle affermazioni del pilota tedesco. E soprattutto, come i miei colleghi di altre testate, rimango senza parole nello scoprire che Schumy si prepara a nuove sfide sportive. Perché? Perché cerca nuove sfide nonostante abbia da pochi anni lasciato l'attività sportiva per dedicarsi alle passeggiate nei parchi, portando le briciole ai colombi, o alle file agli sportelli delle poste per ritirare la sua pensione? Mah! E' proprio vero che certa gente non si accontenta mai. E i media fanno davvero bene a denunciarli.
In un mondo che va a rotoli, per ritrovare un po' di buon umore ho speso una giornata a passeggiare per i sentieri innevati di Carpegna. Dal mare ai monti la neve si fa sempre più presente. Prima è solo ai bordi delle strade, sporca e nera. Dopo pochi chilometri spolvera i colli, poi lascia i ghiaccioli ai rami degli alberi, e infine, ormai ai piedi del massiccio, copre ogni punto del paesaggio a perdita d'occhio. Le ore volano mentre si schiaccia la neve o si scivola sul ghiaccio; e così ci ritroviamo alle 4 a pranzare in una piccola trattoria di Carpegna: il bar Vecchio Montefeltro.
Un pasto semplice: salumi, formaggi e piada. Tutto buono, a parte il vino della casa che alla prima sorsata lascia già quello spiccato retrogusto di acidità di stomaco, e poi mantiene le promesse ardendo come gli occhi di Caronte. Quando usciamo la seconda sorpresa: il prezzo. Ai piatti consumati, il vino, l'acqua e il caffé si sommano il coperto, il sotto-coperto, la stiva, l'addenda-lavastoviglie, la tassa sulle briciole, il dazio imposto dalla guerra Greco-Gotica del VII secolo d.C. per arrivare ad un totale di 40 euro. Me ne vado con la sensazione che sui navigli, a Milano, avrei potuto risparmiare qualche centesimo.
Ma alla fine, né questo, né la triste vicenda di Schumacher, né le altre notizie che tengono il banco sulle colonne dei quotidiani possono rovinare una bella giornata di neve.
----- aggiunta notturna -------
Su richiesta di amici, aggiungo due foto di Agostino sulla neve...