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dal diario del Capitano S. Achab Rossini data fluviale 29.5.7Pane nero, burro, prosciutto, uovo alla coque, marmellate e caffé, la giornata è partita decisamente bene. A Polesella, siamo attraccati al Angeln und Kultur, albergo tedesco che organizza pesca ai siluri del Po per turisti europei. Herr Friderking und Frau sono stati gentili oltre ogni misura. Ci hanno raccontato la loro storia, quella di una passione divenuta lavoro, ci hanno ospitato e infine accolti nella loro casa a condividere la gustosissima colazione teutonica. Iniziamo a capire qualcosa in più del grande fiume. E sembra davvero un mondo al confine, a metà strada tra la civiltà e una zona non ben codificata del vivere sociale. Dal sino-bar al neon blu di Villanova marchesana, alla pesca di frodo di gruppi di ungheresi che catturano i siluri del Po, li inscatolano in loco e li spediscono per tutta Europa, dove sono pregiatissimi, alle oltre 20 strutture per turisti-pescatori europei che accolgono qualcosa come 20.000 turisti l�anno e i cui gestori svolgono anche lavoro di polizia contro gli ungheresi (che portando via i pesci portano via anche il lavoro), tutto ci coglie di sorpresa e ci disorienta.  Le due ore di navigazione scarse della giornata ci hanno messo ancora una volta a dura prova. Risalire il fiume ha le sue difficoltà, soprattutto per via delle forti correnti. Durante una partenza da un molo, una di queste famigerate correnti ci ha sbattuto contro una grossa imbarcazione ancorata dietro di noi causando la prima vittima del viaggio: un�inutile antennina piazzata sul tetto di prua è schizzata via dopo il violento scontro con l�ancora della suddetta barca. Infine, abbiamo avuto qualche problema col motore il cui scarico si era intasato di alghe. Ma nonostante tutto, come potete notare dalla foto in cui mostro sicurezza e sprezzo del pericolo, siamo giunti sani e salvi a Ponte lagoscuro, l�approdo fluviale di Ferrara. Qui il mondo ci è parso diverso, e decisamente in meglio. L�attracco ha mostrato davvero i servizi segnati sulla carta: c�è un bar, un meccanico, qualche essere umano sapiens sapiens che ci è venuto incontro aiutandoci nella manovra, e, soprattutto, una città poco distante, raggiungibile con una mezz�ora scarsa di bicicletta. Ferrara, città delle biciclette. Sembra impossibile, ma le macchine si trattengono dall�investirti e le piste ciclabili sono qualcosa di più della striscia bianca tracciata sull�asfalto sulla quale tutti parcheggiano impunemente (come a Rimini, ndr). Ci prendiamo un paio d�ore per passeggiare per la città tra i monumenti, i turisti e la nostra stanchezza. Ma è una bella boccata d�aria; è un lungofiume che ci piace di più. La sera, finalmente, ceniamo. All�osteria Antico Volano ci tuffiamo nei sapori di terra e di mare del ferrarese, con un buon antipasto di salame all�aglio accompagnato da pinzini (versione locale dello gnocco fritto), cappellacci di zucca, salama da sugo su puré e anguilla in carpione (cotta nella cipolla e nell�aceto bianco) con polenta. Il tutto per poco più di 35 euro a persona, incluso caffé, acqua e servizio. Tra le note negative, il brutto vizio di far pagare l�ottima acqua ottenuta per trattamento dall�acqua del rubinetto e il cameriere con la camicia aperta un po� da truzzo che dimentico dei nomi dei vini.  Ci siamo riconciliati col mondo. Paganelloni e ostriche fuori scala sembrano appartenere ad un altro viaggio, insieme alle tempeste più o meno perfette e ai tristi paesoni del polesine veneto.
dal diario del capitano S. Achab Rossini data fluviale 30.5.7Dopo una bella colazione in un caffé chiccoso nel centro storico di Ferrara, seduti a pochi metri dal castello estense, inforchiamo le bici e ci dirigiamo a Bondeno. Sicuri come vacche indiane che nessuno osi metterci sotto, attraversiamo uno scampolo di periferia prima di imboccare la ciclabile Burana che ci conduce nel mondo fatato dei cicloturisti. Siamo lontani anni luce dalle ciclabili riminesi, dove i ciclisti sono come i birilli della carambola, e si immolano in olocausto agli automobilisti divisi in ciclisti bianchi (= 1 punto) e ciclisti rossi (= 5 punti).  La stradina è deliziosa. Per chi, come me, ha amato il vento tra i salici, questo è il luogo giusto per una scampagnata. La strada corre tra due filari di pioppi che stormiscono al vento. Di fianco il canale mormora placido, mentre una fila di anatroccoli scivola da una sponda all’altra, e fiori e piante profumano l’aria di primavera. Come novelli Humboldt e soci, ci fermiamo a disquisire sul tipo di piante e alberi presenti nella zona, esaminando foglie, cortecce e rami. A Bondeno arriviamo con questo umore, e di filata ci portiamo da Tassi. La definizione che Michele dà di questo ristorante mi pare calzare a pennello: la memoria storica dei sapori del delta ferrarese. Qui, tre generazioni hanno cucinato con sapienza e cura dei prodotti le eccellenze del territorio, a partire dai cappellacci di zucca conditi con ragù, per finire con una perfetta salama da sugo accompagnata da una delicatissima lingua di cinghiale affumicata. Non c’è confronto con altri ristoranti o altri produttori. Roberto Tassi ci racconta con passione le sue scelte, le sue difficoltà nella ricerca dei produttori, la voglia di continuare il lavoro della sua famiglia. E tutte queste attenzioni, queste maniacalità si ritrovano nel piatto e si mangiano con gusto. Perché la differenza tra questi piatti e quelli, ad esempio, di ieri sta proprio nelle continue cure dedicate ai prodotti.  Il ritorno è più difficoltoso del previsto a causa di una deviazione sulla ciclabile, di un continuo vento contro e soprattutto (nostra culpa) dello stomaco pieno di salama e vino. Ma a dispetto delle continue avversità raggiungiamo il porto di Ponte lagoscuro, fissiamo le bici alla barca e in men che non si dica siamo già in acqua. Allora non eravamo consci che le vere difficoltà erano ancora da venire. Presi dalle correnti del fiume appena cresciuto di due metri e in piena dopo le piogge, il motore della Random ha iniziato a tossire, sputacchiare e fermarsi. Mentre le correnti ci spingevano a loro piacimento, dopo alcuni minuti di tentativi e supposizioni siamo riusciti a scoprire il problema: il tubo della benzina era bloccato, schiacciato sotto il serbatoio. Siamo di nuovo in ballo. Ora i veri ostacoli sono i tronchi che la piena ha portato giù e che vanno schivati in continuazione come in un vecchio videogioco anni ’80. Morale: percorriamo appena 5 km e arriviamo a Occhiobello, sulla sponda veneta. A pochi metri dal pontile l’osteria Il mulino del Po, luogo di altri tempi e di opposta concezione rispetto a Tassi (menù fisso a 22 euro, mangi quanto vuoi, antipasto, 2 primi e 5 secondi, tutto tra il dozzinale e il salvabile), è un approdo di salvezza. Attracchiamo al volo prima che l’onda lunga di una grossa chiatta faccia sobbalzare violentemente la nostra pilotina. Balzo sul molo come un marinaio che ha solcato i sette mari, con la cima in un pugno e il coltello tra i denti, ancorando la barca in tempo per resistere ai sobbalzi. Entro una settimana potrei lanciare rostri alle navi che osano avventurarsi in queste acque, alla ricerca del leggendario tesoro del pirata Paganellone... se vuoi leggere la versione di Michele clicca quise vuoi leggere la versione su certenotti clicca qui
 Qualche foto e poche parole. Il ricordo di un bel viaggio a Brescia e sul lago di Iseo. La città è molto elegante, signorile. Entriamo nel centro sotto una statua torva, che ricorda quasi un nazgul! Certo, l'auspicio non è dei migliori, ma in realtà a parte burlesche indicazioni per un parcheggio, che sembravano una partita ad Scotland Yard, la permanenza in città non ha avuto nulla di cui lagnarsi.     A partire dal tempo, sereno e ventilato, fino alla scoperta della città, sia della parte più moderna, ottocentesca, sia per le vie più antiche, in cui abbiamo girovagato alla ricerca di un ristorante. E' stata una famelica caccia verso un posto in cui sedersi e mangiare. Senza guide, consigli o indicazioni, nella speranza di voltare un angolo e dire - toh! ho trovato un'osteria, e sembra buona! E così è successo, per una volta. All'Osteria della Zia Gabri abbiamo mangiato bene. Buoni i primi, maltagliati allo stracotto, sopra tutti, e deliziosi i secondi, tra cui spiccavano l'agnello arrosto e il fegato alla veneziana.  Non so se quello che sto per esporre sia un luogo comune, ma i bresciani sono un po' musoni. Ti guardano così, quando entri in un locale, come se dessi un po' fastidio. Più amichevoli e gioviali quando esci... Pochi sorrisi, insomma, non proprio da burberi montanari amanti della solitudine, o con la puzzetta sotto il naso per turistelli sprovveduti, ma neanche caldi e accoglienti Unica nota di biasimo la mostra America, meta del nostro viaggio. Non tanto la mostra in sé, interessante, soprattutto la prima parte e meno la seconda, ma per l'impossibilità di portarsi dietro il passeggino per il pupo, abbarbicato in braccio per due ore come un lemure del Madagascar. Insomma, se volete le famiglie ai musei e alla ricerca dell'arte, venite un po' incontro, per quanto passeggini e marmocchi possano essere anche ingombranti. Della mostra notevole i paesaggisti delle prime sale e le esperienze di viaggio italiane, con città semideserte abitate solo da solitarie rovine romane e pastori vestiti come Titiro e arcadi anche a fine '800: così pittoresco!  Il turismo del lago d'Iseo la sera ricorda la Rimini degli anni '80, con i localetti proprio a pochi passi dal lago, discoteche tamarre, gente vestita in modo alquanto discutibile e gonzi di periferia da film di Jerry Calà. Molto più bella la domenica mattina, con un po' di nuvole basse e di grigiore diffuso che dopo poche ore si apre in una calda giornata assolata. Gli incontri scontri con musoni non mancano. Come l'ilare barcarolo che non si degna neppure di dirci se è quella la barca che dobbiamo prendere per raggiungere Montisola oppure no, o le scarse notizie dei locali riguardo a luoghi mangerecci.  Nonostante tutto finiamo in un ristorante da comunioni e cresime, in cui siamo gli unici avventori a prendere il misto pesce di lago, mentre imperversa il fritto di mare. O esiste un canale sotterraneo che collega Iseo con l'Adriatico, o mi sfugge qualcosa. I primi sono un po' troppo pasticciati, ma il pesce dell'antipasto è molto interessante, soprattutto la tinca e il missultin.
 Settembre e aprile sono i mesi giusti per preparare i missoltini. Io li ho visti a giugno, ma erano già belli essiccati. I Missoltini o Missultit sono una specialità davvero curiosa. Gli agoni, lontani parenti delle cheppie - pesci di mare - e rimasti intrappolati nei laghi alpini alla fine dell'ultima glaciazione,vengono pescati con grosse reti, puliti e messi sotto sale per 48 ore, poi lavati e letteralmente stesi e appesi a lunghi fili. Rimangono così a seccare per alcuni giorni e poi vengono infilati uno alla volta in un bacino insieme con un po' di alloro. Torchiati e pressati per cinque mesi, poi scolati, sono pronti per essere appena scaldati, conditi con un pizzico di olio e aceto e mangiati. Una ricetta antica, che risale almeno a quando i freezer non erano ancora di questo mondo, e il sale era la salvezza dalla putrefazione. A prepararli è Ceko, pescatore e lecchese doc. Un amore iniziato a sette anni, seguendo le orme del padre e ripreso, dopo una parentesi come operaio, con il figlio e la moglie. Qui sì che c'è da stare con la testa bassa. Il lavoro è continuo. Alle 4 di pomeriggio si stendono le reti che poi vengono messe nel lago, poi si fa il giro per consegnare il pesce della giornata. La mattina alle 3 è l'ora di andare a controllare il lavoro delle reti e tirare su il pesce, portarlo nel laboratorio e iniziare a pulirlo. Il lavoro continua fino a fine mattina, poi un sonnellino e poi via di nuovo. Senza sosta, tutti i giorni e tutto l'anno. Ceko è uno che il lavoro ce l'ha scritto in faccia, senza mezzi termini. Si scusa che non mi può dedicare più tempo mentre lo fotografo durante la pulitura.
 Da Milano a Lecco sono circa cinquanta chilometri, ma è dura scrollarsi di dosso le riluttanti scorie urbane. I primi colli rendono impossibile l'installazione di capannoni, container e fabbriche, ma le case resistono, acquistando un po' di bellezza. All'uscita di una piccola galleria ci si trova in alto, su un costone che guarda su una valle. Nessuno sa come siamo saliti fin quassù, treno compreso. La foschia calda e pesante di fine giugno resiste e ristagna velando ogni cosa, ma un po' di Lecco emerge. Tra le sagome di monti e il lago la fabbrica di sali di bario e altri componenti chimici produce ricordi di archeologia industriale. La ciminiera scura e inanellata, caratteri di un altro secolo, sudore rappreso. Finalmente la città. Non c'è separazione tra lago, nubi ed umidità, così si suda solo a pensare a quest'associazione. Il borgo di pescarenico è carino, ma non sembra aver conservato molto del suo aspetto originario. La città è strana e difficile da penetrare. Non riconosco un itinerario, un centro, un dipanarsi delle vie: tutto è incastrato tra la riva calma e il Resegone che sale subito alle spalle. Tutto intorno è un ridondare di nomi manzoniani, dalla trattoria Azzeccagarbugli sino a Corso Promessi Sposi. Ogni tanto le vie si aprono in qualche piazza piuttosto anonima, da borgo montano. Non trovo punti di riferimento. Non posso dire che la cità sia brutta, ma nemmeno il contrario. E' invece bello l'intarsio tra vie, palazzi, campanili, lago e monti. E' difficile datare i palazzi e le chiese. Lecco è una città pudica che difficilmente si lascia conoscere. Non per questo non desta la curiosità di infilarsi nelle viuzze per vedere dove sbuchino o di sedersi ad un tavolino ed osservare come il tempo passi tra le colonne e i getti delle fontane. Ma rimane l'idea che il vero cuore della città si celi al passante veloce, non si lasci scoprire. Bisognerebbe forse, prendere più tempo ed esplorare le strette vie che salgono, oppure sedersi su una panchina a guardare un gruppo di punk che fa il bagno nel lago. Quando riparto da Lecco ho la sensazione di un orgasmo interrotto. Tra una statua di Manzoni e il convento di Fra Cristoforo, sento nelle mani gonfiate dal caldo, il filo sfuggente del tessuto urbano. Qualche scatto l'ho rubato, ma di Lecco non ho ancora visto l'anima. Quando, tornato a Milano, racconto del mio viaggio ad alcuni amici, mi rispondono solo: Lècco! Sarà mica una città!
 Melville parla del grande Oceano, dei balenieri e dei profumi delle Molucche; io ho solo le silenziose e immobili sponde di un lago, e pure artificiale! L’invaso di Montedoglio, nell’alta Valtiberina, è un grande lago artificiale nato con tempi tutti italiani. Progettato negli anni ’70, è stato ultimato attorno al 2000. Sia come sia, il grande bacino regala panorami affascinanti e quella sottile inquietudine tipica delle grandi masse d’acqua imprigionate tra scuri e antichi colli. Io che sono abituato alla continua risacca del mare, mi trovo spaesato e perso davanti a quest’acqua scura e muta, che si increspa appena sotto il fiato del vento. Il lago è pervaso di una bellezza selvaggia, quasi barbara. Le sponde sono irregolari e ci si spinge con la macchina fin tanto che c’è una strada. Poi, d’improvviso, s’interrompe, e si continua a piedi. Qui attorno, sorgono i borghi e le città della Toscana appenninica, che incontra e si scontra con lembi di Romagna, Umbria e Marche. L’arroccato paese di Anghiari, tutto raccolto nelle sue mura e con la lunga strada dritta che si perde nell’orizzonte, oppure il piccolo Caprese Michelangelo, che ha dato i natali al grande artista, o ancora Sansepolcro, forse dall’aspetto più anonimo delle prime due, ma con l’imperdibile museo dedicato a Piero della Francesca. Quando piove - ebbene sì!, piove anche ad agosto - si respirano subito i forti odori di sottobosco e della montagna, soprattutto se ci si sposta verso nord, nel cuore dell’Appennino. Qui, i soli padroni sono gli imponenti castagni e le grandi querce che si trasformano, all’occorrenza, in imponenti ombrelli sotto i quali sedersi a guardare il bosco. Poi si arriva a Camaldoli, dove gli antichi monaci hanno perso la tanto agognata pace e il ritiro dal secolo, circondati da turisti che corrono da una cella ad un chiostro ad osservare vite e ritmi di un altro mondo.
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