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       Mentre nella nelle tre piazze i turisti comprano tartufi, funghi e salumi, io sono salito quassù, ai piedi della torre di Federico II da cui si raccoglie, con un solo sguardo, gran parte della città che corre zigzagando sul crinale e della campagna toscana. Dalla cima della torre, ormai sette secoli or sono, si gettò un detenuto illustre, quel Pier Delle Vigne imprigionato nell’inferno dantesco proprio per suicidio. Siamo a San Miniato, la città delle XX miglia. Così chiamata perché fu scelta dall’’imperatore svevo proprio perché all’interno di questa distanza si raggiungevano luoghi importanti dell’impero come Lucca, Siena, San Gimignano, Volterra e inoltre sorgeva sulla via Francigena nel cuore della valle dell’Arno, vicina a Firenze e Siena. Ora le strade sono vuote di pellegrini e la torre non rinchiude più i prigionieri. Ma la città ha saputo trovare una sua ricollocazione nel fortunato panorama enogastronomico, ottima produttrice di salumi, funghi, tartufi, vini e olio d’oliva. Insomma, un motivo per venire a visitarla c’è!
 Se esiste un inferno per i fotografi, sarà fatto ad immagine e somiglianza di Città di Castello. In primo luogo, Città di Castello soffre di un male orribile che affligge tutte le città italiane: le automobili. Solo poche città in Italia sono immuni dal parcheggio folle e schizofrenico in tutto il centro storico e davanti ad ogni monumento. Città di Castello, mi rincresce dirlo - perché tra l'altro è un borgo molto suggestivo - rappresenta lo stadio finale di questa tendenza. Le macchine sono letteralmente ovunque. In tutte le vie, anche le più strette del centro, nelle piazze, anche quelle che ospitano i monumenti di pregio, negli slarghi, nei piazzali e, a breve, sui balconi delle case. Ma questo è solo uno degli ostacoli fotografici della mia visita odierna a Città di Castello.  Ecco una breve cronistoria del viaggio. La sera prima di partire ha nevicato. "Vabbé", mi sono detto, "dovrebbe smettere in serata, secondo le previsioni". Per sicurezza ho recuperato un paio di catene per la macchina e mi sono comunque preparato a partire. Durante il viaggio, a metà della mulattiera E45, superato Bagno di Romagna, si sono avverate di colpo una mezza dozzina di profezie del nuovo e vecchio testamento: il sole si è oscurato, le nuvole erano così basse e nere che la mattina sembrava la sera, nevicava e il vento portava con sé le più crudeli creature dell'inferno. Pochi chilometri prima del passo, l'E45 chiudeva. Per ferie? No, per lavori. Così sono uscito e ho preso il passo di Monte Salico. Il paesaggio era sospeso tra la neve e le nubi basse, gli alberi e i rami erano imbiancati, insieme alle montagne e ad un gruppo di piccole arnie posate poco distanti dalla strada. Svalicato insieme ad un branco di lupi e ad una fila di camion, siamo scesi verso Città di Castello, dove ci attendeva una pioggia battente.  Nei pressi della città, per diretta intercessione dell'altissimo, la pioggia scemava. Sceso dall'auto ho iniziato subito a fare qualche foto - senza troppa convinzione - sotto un cielo grigio che ingrigiva ogni cosa. Come se tutto questo non fosse stato sufficiente, l'impacchettatore Christo doveva essere arrivato qui pochi giorni prima di me. I principali monumenti, i campanili, le piazze e le chiese più belle erano tutte avvolte dalle impalcature e dai tendaggi dei lavori. La pioggia riprendeva ad intermittenza sincronizzandosi con il mio ingresso nelle caffetterie: quando entravo, smetteva, quando uscivo ricominciava. Come detto sopra, le macchine erano parcheggiate prospicienti ad ogni monumento davanti al quale non ci fossero i lavori, ed infine, ad ogni incrocio si trovava un cartello che indicava: pinacoteca comunale, ognuno in una direzione diversa. Un altro problema di Città di Castello è che le vie sono larghe giusto quanto un automobile, ma, purtroppo, ci sono anche i pedoni, con grave rischio della loro vita - in questo caso della mia. Stanco e provato, al limite della depressione, ho deciso di tornare indietro e di rimandare la visita a Città di Castello ad un altro giorno. "Ma", mi sono detto, "posso approfittarne per fare qualche foto ai paesaggi innevati sul passo!". Il tempo di arrivare su, e la pioggia aveva sciolto la gran parte della neve. Domani ho appuntamento con l'esorcista.
 Di giorno, a Santo Stefano di Sessanio, in Abruzzo, le colline hanno il colore del sughero, bruciate dal sole. Ai fianchi di altopiani macchiati di pezze colorate, le colline prima e le asperrime vette della Maiella poi si alzano incontrastate. A differenza delle colline laziali, affogate nel verde e tagliate da fiumi e cascate, qui si respira un preambolo di deserto. Tutto sembra coperto da una sabbia scura, grassa, eppure, l'idea che ne emerge, non è solo di arsura e secchezza, rimane un fondo azzurro, selvaggio ed estremamente vitale. Ogni tanto spunta un muro medievale ed una torre, i ruderi di un castello, oppure una chiesa dimenticata dai fedeli, tutti sotto uno sguardo solare che sembra non dover mai tramontare. La sera, il piccolo borgo è vittima di un silenzio asfissiante. Ho passeggiato per le strade del borgo per lungo tempo, passando da una piccola scalinata ad un antico arco di pietra, sotto la torre maestosa e scabra, e di fianco ad una chiesa sconsacrata e senza entrata, e in tutti questi passaggi non ho incontrato anima viva. Solo un gatto si aggirava ignaro di me e dei miei pensieri. Santo Stefano di Sessanio è una città fantasma. Una città che, per quanto ricostruita e restaurata secondo i progetti originari, senza aberrazioni edilizie o speculazioni di sorta non ha più nulla a che fare sol suo genius loci. Nessuno, se non turisti o cittadini benestatnti in cerca di un'isolazione elitaria, verrà più a vivere quassù e a condividerne le fatiche, le stagioni, i silenzi. Una bella città, un bel restauro, ma tutto è carico di una forte nostalgia inespribile. Si percepisce uno profondo stacco irrecuperabile con un passato che solo s'intravvede nelle mura scure e annerite dai fumi dei fuochi. Solo qualche veccchio passeggia avanti e indietro, per sottolineare ancora di più quale universo di tempo e di evoluzione esista tra il proprio mondo e il nostro. Settanta anime, contro un futuro di turisti. Ma non c'è battaglia, perché qui i giochi sono già conclusi. Come sempre, e non poteva essere diversamente, ha vinto il tempo, e non ha vinto solo sulle pietre e sulle rughe della pelle, ma ha vinto contro la nostra idea di cultura, le nostre pallide e sottili tradizioni, le nostre preconcette idee sul passato. Il resto sono sogni, piccole illusioni, giochi di costruzione. Un'ultima addenda: Santo Stefano, questa mattina, mentre i turisti passeggiano con i loro cappellini e gli occhiali da sole, alla ricerca di un ricordo da riportare a casa, Santo Stefano, dicevo, mi ha dato l'idea di essere un grande museo all'aperto. Come andare in vacanza un paio di giorni al Louvre (che, come tutti ripetono ad ogni vostro accenno di una visita, non è possibile vedere in un giorno) e riuscire a dormire in una stanza tra le sale d'Egitto. Il mio umore oscilla tra l'idea di perdita del borgo, a quella di un recupero che non poteva essere fatto meglio di così.
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